Il riparto delle spettanze probatorie

 In vizi in materia di appalto

Il riparto delle spettanze probatorie nelle ipotesi di garanzia per vizi in materia di appalto

All’attenzione dello Studio, particolarmente attivo nel settore dell’appaltistica privata, più volte sono state sottoposte questioni relative al riparto dell’onere probatorio in materia di responsabilità contrattuale.

Nelle azioni finalizzate al recupero del credito, o di parte del credito, che l’appaltatore vanta nei confronti del committente, infatti, non raramente quest’ultimo predispone il proprio impianto difensivo sollevando eccezioni di inadempimento, deducendo l’esistenza di vizi e difetti che inficerebbero l’opera realizzata.

In simili fattispecie, dunque, diviene di fondamentale importanza, anche nell’ottica di un possibile approdo transattivo dell’insorta controversia, la comprensione relativa alla fondatezza delle doglianze dell’appaltante/convenuto.

In tal senso, non secondario rilievo assume l’aspetto afferente alle spettanze probatorie di ciascuna delle parti in causa, aspetto che nell’ambito del contratto d’appalto presenta connotati problematici che il presente articolo si propone di esaminare.

Una disamina approfondita di simile tematica non può prescindere dalla preliminare lettura dell’art. 2697 c.c. secondo il quale, in ambito processuale, colui che vuol far valere un diritto è tenuta a dar prova dei fatti che ne costituiscono il fondamento, mentre, per converso, la parte che eccepisce l’inefficacia, la modifica o l’estinzione di tali fatti è chiamata alla dimostrazione degli elementi sui quali la stessa eccezione si basa.

Parimenti importante risulta essere un richiamo alla c.d. responsabilità contrattuale che rinviene la primaria disciplina nell’art. 1218 c.c. e nel cui genus sono ricomprese tutte le fattispecie, tra le quali quelle oggetto di disamina, laddove una delle parti lamenta l’inadempimento altrui ed un tanto sia nelle ipotesi in cui tale doglianza sia presupposto della domanda giudiziale, sia ove la stessa rappresenti fondamento, ex art. 1460 c.c., dell’eccezione di parte convenuta.

Molto si potrebbe dire in merito alla graduazione di gravità che il legislatore richiede ed ai rimedi concessi alla parte adempiente, soprattutto in ragione delle differenze previste tra due tipologie contrattuali, quali compravendita e appalto, alquanto invalse nella realtà quotidiana, tuttavia di ciò ci si occuperà in futuro essendo la presente disamina focalizzata su una tematica diversa, seppur di stretta correlazione.

Prendendo le mosse dalle succitate norme, pertanto, il richiamo alla nota pronuncia n. 13533 del 2001 delle Sezioni Unite dalla Corte di Cassazione è pressochè automatico: pregio della sentenza in parola è stato quello di delineare definitivamente il quadro probatorio nell’ambito della responsabilità contrattuale (“Il creditore che agisce per l’adempimento, la risoluzione o il risarcimento del danno deve dar prova del titolo, contrattuale, dal quale deriva il proprio diritto, limitandosi semplicemente ad allegare l’altrui inadempimento, mentre sarà onere del debitore convenuto dimostrare l’esatto adempimento”).

Il ragionamento della Suprema Corte si fonda sull’assunto che onerare il creditore della dimostrazione dell’altrui inadempimento significherebbe costringere il medesimo a dar prova di una circostanza negativa, gravando così eccessivamente la sua posizione processuale.
Simile sillogismo è alla base della ricostruzione che le Sezioni Unite, nella sentenza de qua, forniscono in punto spettanze probatorie in presenza di eccezioni di inadempimento.

In tali casi, ribadisce la Corte di Cassazione, il riparto probatorio non può che essere modificato nel senso di individuare nell’attore/creditore la parte sulla quale ricade, alla luce della sollevata exceptio inadimpleti contractus, la necessaria prova dell’esatta esecuzione delle obbligazioni contrattualmente assunte.
Lo stesso dicasi per le ipotesi in cui il convenuto sollevi la c.d. exceptio non rite adimplendi contractus, ossia lamenti non già un inadempimento di controparte, bensì un inesatto adempimento che, nelle fattispecie concernenti la materia appaltistica, si concreta nella sussistenza di vizi e difetti dell’opera realizzata.

In realtà, precedentemente alla pronuncia delle Sezioni Unite, non era mancata qualche sentenza che attuava una netta differenziazione tra i casi di inadempimento sic et simpliciter e quelli di inesatto adempimento.

Su tutte la sentenza n. 1457/2000, sempre della Suprema Corte, con la quale veniva evidenziato un preciso nesso di interdipendenza tra la strategia processuale del convenuto ed il suo onere probatorio: se questi allegava l’inadempimento altrui, onere del creditore, nei termini innanzi indicati, era quello di fornire prova del corretto adempimento, viceversa, qualora oggetto delle doglianze fosse un inesatto adempimento, la mera allegazione non sarebbe stata sufficiente dovendo parte eccipiente dimostrare l’inesattezza dell’altrui adempimento.

Tale orientamento è stato dunque sconfessato dalle Sezioni Unite nel senso testé riportato e proprio su tale punto va ad innestarsi il vero problema che il presente articolo si prefigge di esaminare, problema la cui risoluzione univoca sarebbe tanto auspicabile quanto dirimente visti i potenziali risvolti pratici che la medesima potrebbe assumere.

Permettere al committente/convenuto di resistere in giudizio limitandosi ad allegare la sussistenza di difformità costruttive, magari col fine unico di procrastinare le tempistiche, rappresenterebbe evidentemente un aggravio della posizione dell’appaltatore, nonché una lesione al generale interesse ad un corretto e celere svolgimento del processo.

Simile problematica è nota alla Giurisprudenza tanto che alcune sezioni semplici della Suprema Corte, sostanzialmente discostandosi dall’arresto del 2001, hanno sancito l’onere in carico all’appaltante, che si dolga dell’esistenza di vizi e difetti, di dimostrare l’effettività e la fondatezza delle lamentate carenze costruttive, ricalcando così il filone sopra riportato che sembrava sconfessato dall’intervento delle SS. UU. (si cfr Cass. civ. sent. 5250/2004).

Quest’ultima, fortunatamente, sembra essere la linea di pensiero intrapresa dai giudici di legittimità e ciò, a parere dello scrivente, appare maggiormente rispondente a ragioni di giustizia ed equità, nonché aderente al disposto di cui all’art. 2697 c.c. soprattutto nei casi di obbligazioni di risultato quali quelle caraterizzanti il contratto d’appalto.

Importante, a tal proposito, anche il richiamo al generale principio della “vicinanza o prossimità della prova”, principio regolatore e sovraintendente l’intera disciplina del riparto dell’onere probatorio che simile orientamento ha il pregio di valorizzare.

E proprio in relazione a tale principio che è intervenuta recentemente la Suprema Corte (sent. n. 19146/2013) sottolineando l’importanza, ai fini della distinzione tra i due regimi di riparto dell’onere probatorio oggetto di analisi, dell’accettazione, espressa o per facta concludentia, dell’opera da parte del committente.

In particolare: se quest’ultimo ha accettato l’opera consegnatagli, graverà sul medesimo la dimostrazione della sussistenza dei difetti, mentre, per converso, la mancata accettazione, anche per un mero fattore temporale, “avvantaggia” l’appaltante in tal caso essendo bastevole la mera allegazione dell’esistenza dei vizi inficianti l’opera.

Ultimo aspetto sul quale pare opportuno soffermarsi, seppur brevemente, è rappresentato dall’elemento psicologico, id est della colpa, che, nell’appalto, come in tutte le ipotesi vertenti in tema di responsabilità contrattuale, rimane a livello presuntivo in capo al contraente inadempiemnte.

In altre parole: vero che spetta al committente/convenuto dar prova dell’effettiva presenza di vizi e difetti, ma altrettanto plausibile che, una volta esaurito l’onere probatorio in tal senso, in capo all’appaltatore vi sia la presunzione di colpa dal quale lo stesso può liberarsi provando l’assenza di qualsivoglia profilo colposo caratterizzante la sua condotta (sul punto, in tema di appalto, si cfr. Cass. civ. sent. n. 21269/2009).

Avv. Cristian Molaro

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